Ma Sacchi lo è o ci fa?

12.02.2018 11:22 di Claudio Nassi   vedi letture
© foto di Giovanni Padovani
Ma Sacchi lo è o ci fa?

A me hanno insegnato tutto. Sono sempre stato curioso, ho ascoltato e cercato di imparare ovunque. Nel '78 alla Pistoiese ho cominciato a lavorare con lo psicologo, ma sapevo che la nazionale brasiliana l'aveva al seguito nel '58 in Svezia, quando vinse il primo Mondiale. Nello stesso anno cominciai a fare lo scout nel calcio, ma per il basket, che molto mi ha insegnato, era la prassi. Nell''82 fui il primo a fare il procuratore in Italia, ma cercavo di ripetere quello che Mc Cormack e Donald Dell facevano negli USA con i campioni del tennis e del golf. Nell''84 a Perugia si andava in campo col computer e l'allenatore, alla fine del primo tempo, aveva i dati relativi ai suoi e agli avversari, ma per il basket era normale. Poi, non so come, mi è capitato di acquistare o far acquistare il meglio che c'era in circolazione dal '78 al '90, da Salsano, non ancora 14enne, a Dossena, Pellegrini, Renica, Vierchowod, Mancini, Galia, Pari, Mannini, Vialli, Berti, Baggio e Van Basten, di cui conservo incorniciato il preliminare di contratto. Mi piace ricordare che il più vecchio aveva 23 anni e, con i giovani, mi hanno insegnato, non si rimette mai. Ah, stavo per dimenticare il 21enne Redondo. Alla sera a casa del Presidente, con Cosentino e Menotti, era tutto concluso e al mattino non più. Per Mancini e Vialli era lento. Gli preferirono Mikhailichenko. Ma sono riuscito a tanto grazie al fatto di avere Presidenti Melani, Mantovani, Ghini e Pontello, che mi avevano dato carta bianca. Ho avuto il piacere di stare a contatto con uomini che conoscevano il calcio, con i quali confrontarsi e accrescere il proprio bagaglio. Ricordo Ellena, Santos, Bearzot, Lucchi, Boniperti, Valcareggi, Liedholm, Sandro Vitali, Riccardo Sogliano, Biagiotti, Favini, Clagluna, Fascetti e altri, che mi hanno fatto credere di capire qualcosa.

Ma questo viene a cadere quando sento parlare o leggo Sacchi. Eppure di lui so quasi tutto. Una volta andai anche a trovarlo in ritiro col Milan a Forte dei Marmi. Evitai la visita a Milanello. Dai comportamenti della squadra ebbi spiegazione di tutto. Non ce l'ho con l'Arrigo allenatore, ma con coloro che l'hanno seguito, pensando che a vincere fossero gli schemi. La penso diversamente. A 40 anni ebbi un'illuminazione da un mio calciatore. Mi spiegò che a decidere erano quelli che scendevano in campo. Conosco anche una frase di Alfredo Di Stefano, "Conta il talento, non l'allenatore", e il suo Real Madrid dava spettacolo. E non dimentico quella di Van Basten: "Di dieci allenatori che ho avuto, uno mi ha insegnato qualcosa (e questo è Cruyff), tre non hanno lasciato il segno e sei hanno rischiato di rovinarmi". Qualcuno aggiunge che in passato si leggevano i tabellini con i nomi dei calciatori, ma non c'era quello dell'allenatore. Un caso? Ecco perché quando sento dire da Arrigo che si pensa solo a vincere e non a un calcio di coraggio, bellezza ed emozione, oppure che dedicava poco tempo alla tecnica individuale e la allenava mentre educava il gioco di squadra, vado in paranoia, perché, nonostante i tanti maestri e la veneranda età, non ho ancora capito nulla. Non rimane allora che invitarlo a Lady Radio per spiegare agli ascoltatori come si può continuare a vincere senza giocar bene, perché chi vince così - aggiunge - non lascerà idee da ricordare, ma solo vittorie. Dopo aver detto che non credo ancora a ciò che ho letto, domando come sia possibile che negli USA, dove hanno inventato lo sport professionistico, esista un dogma: "Non conta vincere, ma solo vincere". Arrigo, mi raccomando, vieni a spiegarcelo! 

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